Alla Volpe Rosa piaceva l’uva.
Per tutte le lune dell’anno la Volpe Rosa aspettava la stagione giusta, ed
allora scendeva a valle tutti i giorni alla grande vigna che si estendeva alle
pendici della montagna; con dei gran balzi raggiungeva i grappoli che pendevano
dagli alti filari e con un morso al volo strappava alcuni acini: erano buoni,
succosi, freschi, dolci.
La vecchia Volpe Grigia criticava la Volpe Rosa: «L’uva è
buona ma non ha sostanza: non riempie lo stomaco a lungo e bisogna mangiarne
tutti i giorni; qualche piccolo roditore invece sazia anche per alcuni giorni
fino a che la caccia ha di nuovo successo».
«Certo», rispondeva la Volpe Rosa, «faticosi cerche ed
appostamenti di ore per stanare un’arvicola; e dopo che finalmente sei
riuscito a mettere qualcosa sotto i denti, come premio, puoi iniziare tutto da
capo; e più passano i giorni senza che riesci a catturare
nient’altro e più hai di nuovo fame, e più senti lo stomaco
vuoto e più sei costretto a continuare a cacciare. L’uva almeno
è un’alternativa facile: magari fosse disponibile per tutto
l’anno!».
La Volpe Grigia era un esemplare vecchio e ormai spelacchiato, rispettato da
tutti per la sua grande saggezza; ma era anche ottusamente ancorato ai vecchi
modi di vivere, incapace di cogliere le opportunità di nuovi esperimenti:
secondo lui, ciò che funzionava da generazioni di volpi avrebbe
funzionato per sempre, e sacrifici e rinunce facevano parte della vita
anziché incentivare a trovare soluzioni alternative.
La Volpe Rosa era invece convinto che tutte le tecniche di caccia e di
sopravvivenza che le volpi conoscevano dovevano per forza essere state frutto
degli esperimenti delle volpi ancestrali nel tentativo di rendere la vita sempre
più facile, anche rischiando dei fallimenti. Se le antiche volpi
l’avessero pensata come la Volpe Grigia, probabilmente le volpi si
sarebbero estinte già da secoli, al primo inverno più rigido del
solito.
«Strano», si disse una volta la Volpe Rosa con malizia,
«eppure la Volpe Grigia è così vecchio che, almeno
quand’era un cucciolo, deve averli conosciuti i nostri
antenati!».
La Volpe Rosa continuava così a scendere alla vigna per farsi delle
scorpacciate d’uva prima che gli esseri umani la raccogliessero ponendo
fine a quella stagione di abbondanza.
La Volpe Bruna era famoso per il suo coraggio, la sua forza e la sua
abilità di cacciatore; corrispondenva esattamente all’ideale e allo
stile di vita che tutte le volpi ritenevano corretto, e anche lui non era
d’accordo con la passione della Volpe Rosa per l’uva:
«L’uva è buona, ma è pericoloso avvicinarsi
così tanto agli esseri umani: prima o poi ti scopriranno e, se sei
fortunato, ti cacceranno, altrimenti ti uccideranno; se scoprono che è
una volpe a rubare tutta quell’uva, piazzeranno sicuramente delle
tagliole».
«Anche andare a caccia è pericoloso, tutto è
pericoloso», rispondeva la Volpe Rosa, «Tra l’altro, nella
stessa stagione dell’uva, gli esseri umani salgono sulla montagna con i
loro fucili per cacciare i fagiani, e prima o poi capiterà che anche uno
di voi che resta qui a cibarsi di topi si becca qualche pallino di piombo anche
solo per sbaglio. Se a me piace di più l’uva che la selvaggina,
è naturale che io preferisca rischiare alla vigna piuttosto che qui nei
boschi».
Passarono le lune e le stagioni e la Volpe Rosa continuava a vivere
serenamente come voleva: alla fine di ogni estate mangiava quasi solo uva;
durante il resto dell’anno invece si adattava a cacciare arvicole, ricci,
pernici; in primavera poteva anche rubare delle uova.
La Volpe Rosa in realtà non diventò mai un cacciatore veramente
bravo, tanto meno al livello della Volpe Bruna; ad esempio, solo raramente
riusciva a catturare qualche preda più grossa come una lepre, ma non gli
interessava: «È giusto che ci sia differenza tra quando ci si
procura il cibo per sopravvivere e quando invece si mangia qualcosa che
veramente ti da piacere», si diceva la Volpe Rosa, «e a me interessa
soprattutto la seconda parte; ad ogni modo non mi manca nulla».
La Volpe Grigia decise che le volpi dovevano trasferirsi più in alto
sulla montagna.
«Dobbiamo allontanarci dagli esseri umani», spiegò,
«Noi volpi prendiamo solo ciò che ci serve veramente dalla natura,
lasciandola rigenerare in modo che i nostri cuccioli la ritrovino così
come l’abbiamo ereditata noi e possano perpetuare la specie. Gli umani
invece non risparmiano nulla e vivono nell’abbondanza depauperando la
natura: quando si renderanno conto che così lasceranno solo uno sterile
deserto ai loro cuccioli sarà troppo tardi, ma noi volpi dovremmo essere
già lontani per continuare a vivere come abbiamo sempre fatto senza
subire le conseguenze della loro avidità».
La Volpe Rosa la vedeva in modo diverso: «Certo, sopravvivere di caccia e
tra una caccia e l’altra soffrire la fame, in modo che anche i nostri
cuccioli possano sopravvivere di caccia e tra una caccia e l’altra
soffrire la fame, in modo che anche i loro cuccioli possano sopravvivere di
caccia e tra una caccia e l’altra soffrire la fame, e così via per
tutte le stagioni fino alla fine dei tempi!
Gli esseri umani forse esagerano dalla parte opposta, ma almeno loro cercano di
vivere bene ogni giorno e allo stesso tempo cercano di lasciare ai loro
cuccioli, generazione dopo generazione, più di quanto abbiano avuto loro
e soprattutto la volontà di cercare sempre di migliorare la propria vita.
Io credo che noi volpi potremmo imparare qualcosa dagli esseri
umani».
Ma come al solito nessuno dava retta alla Volpe Rosa, e anzi molte volpi si
limitarono a pensare che la Volpe Rosa non volesse semplicemente allontanarsi
dalle pendici della montagna dove si estendeva la vigna, anche se non glielo
dissero apertamente.
Così la maggior parte delle volpi salì più in alto sulla
montagna, anche se là gli inverni erano più rigidi e le prede di
grossa taglia più scarse; la Volpe Rosa rimase invece nella fascia
più bassa praticamente da solo con le sue idee così diverse.
«Io resterò qui e trarrò tutti i benefici che potrò
dalla vicinanza con gli esseri umani», si disse, «e ad ogni fine
estate potrò farmi delle gran scorpacciate d’uva. Non ho cuccioli a
cui lasciare l’educazione al sacrificio e alla rinuncia, e dunque non ho
motivi per limitarmi in ciò che mi da piacere».
I primi tempi, le altre volpi ogni tanto scendevano a valle perché non
disdegnavano certo di razziare i pollai degli esseri umani; così, quando
la Volpe Rosa le incrociava, potevano scambiare due parole.
Queste occasioni diventarono però sempre più rade perché la
pista dalla cima della montagna fino ai pollai giù a valle era lunga e
faticosa, quindi le volpi, trasferendosi nelle zone elevate, avevano accettato
di concedersi il piacere dei polli ruspanti solo un paio di volte per stagione:
contenti loro!
La Volpe Rosa scoprì un’altra vigna più piccola e
nascosta in una stretta valle tra due contrafforti della montagna, e lì
l’uva maturava più tardi e gli acini erano più piccoli ed
avevano un sapore più deciso; il gusto era diverso, buono.
Sicuramente anche perché la Volpe Rosa spostava il suo territorio da una
vigna all’altra seguendo le stagioni della maturazione, l’occasione
di incontrare qualcuna delle altre volpi diventò ancora più rara e
finì che si persero completamente di vista, così
com’è normale quando si ha così poco in comune e non si ha
più occasione di frequentarsi vivendo vicini.
Di tanto in tanto la Volpe Rosa ripensava ancora alla piccola Volpina Fulva
che aveva tanto desiderato, ma anche lei si era trasferita più in alto
sulla montagna. La Volpina Fulva amava correre attraverso i boschi, su e
giù per i pendii scoscesi, esplorando tutte le piste e scoprendone di
nuove, ed amava la caccia, e ovviamente amava che qualcuno cacciasse per
lei.
«Probabilmente finirà che si accoppia con la Volpe Bruna»,
pensò la Volpe Rosa con una punta di gelosia, «Staranno bene
insieme perché la Volpe Bruna è un valido cacciatore e non
farà mancare nulla a lei e ai loro cuccioli, mentre io potrei offrirle
solo dell’uva».
Un tempo, la Volpe Rosa si era baloccato un po´ all’idea di mollare
tutto e ricongiungersi con le altre volpi in cima alla montagna per poter
tentare di nuovo di corteggiare la piccola Volpina Fulva; ma la sua forza di
volontà era troppo debole, e poi ormai erano passate troppe stagioni e la
Volpina Fulva, come le altre volpi, non aveva alcun motivo per ricordarsi di
lui: era meglio pensare questo che pensare di non aver mai avuto alcuna
possibilità.
Un giorno la Volpe Rosa spiccò un salto verso uno dei grappoli
più alti, ma riatterrò in modo scomposto e… crac…
si ruppe una zampa; una lancia di dolore gli percorse il corpo dalla zampa e
lungo tutta la spina dorsale fino alla base del cranio, un dolore così
acuto che quasi svenne.
La Volpe Rosa impiegò alcuni minuti prima di riuscire a riprendere a
respirare ed ancora più tempo per rallentare il battito cardiaco ad un
livello più sopportabile. Infine la Volpe Rosa riuscì a rialzarsi
con un enorme sforzo e cominciò a zoppicare penosamente verso la sua tana
tenendo sollevata la zampa rotta, ma la schiena… «Maledizione! Deve
essere successo qualcosa anche alla schiena!»… appena sopra il
bacino c’erano un dolore pulsante ed una sensazione di gonfio che lo
costringeva a concentrarsi sulla limitazione dei movimenti.
Nei giorni successivi il dolore non diminuì; la frattura alla zampa
cominciò a ricomporsi ma non nella posizione giusta perché la
Volpe Rosa non riusciva a mantenere la postura corretta a causa del dolore alla
schiena; in questo modo non avrebbe mai potuto riconquistare
l’agilità di un tempo.
La Volpe Rosa temeva di non farcela, ma non aveva scelta e cominciò a
risalire la pista verso la cima della montagna per chiedere aiuto alle altre
volpi: la vecchia Volpe Grigia, con la sua antica saggezza, forse avrebbe potuto
aiutarlo.
Quando giunse infine nelle zone elevate, la Volpe Rosa era stremato dal dolore e
dalla fame, poiché procurarsi il cibo era diventato difficile, ma fu
tutto inutile.
«Non posso aiutarti: il dolore diminuirà col tempo, forse»,
gli rispose la Volpe Grigia, «Probabilmente mangiare più uva che
selvaggina ti ha indebolito la muscolatura e le ossa; avresti dovuto concederti
l’uva solo qualche volta come sfizio, ma ormai non riuscirai più a
saltare in alto per raccoglierla. Dovresti ritenerti fortunato a non essere
incappato in una tagliola (come la Volpe Bruna ti aveva avvertito) e ad essere
ancora vivo».
La Volpe Rosa ripetè alla Volpe Grigia quanto gli era accaduto, visto che
le tagliole non c’entravano proprio nulla: aveva avuto un incidente, ora
stava male e la priorità era che doveva essere curato. Ma tanto la Volpe
Grigia era più interessato a criticare che ad aiutare.
La Volpe Rosa tentò allora con l’ingegnosa Volpe Gialla.
La Volpe Gialla conosceva più cose sugli esseri umani di tutte le altre
volpi: un tempo si spingeva spesso fino alle loro città e frugava tra i
loro rifiuti (tra i quali si poteva imparare molto sugli uomini) e ogni volta
tornava con qualche nuovo aggeggio ancora utile o divertente che gli umani
avevano scartato. Forse la Volpe Gialla aveva imparato qualcosa sui rimedi degli
esseri umani contro i dolori, forse poteva procurare alla Volpe Rosa qualche
unguento.
«Non ho mai trovato nulla del genere», rispose invece la Volpe
Gialla, «Non credo che esista un unguento miracoloso; non credo che
nemmeno gli esseri umani abbiano inventato dei rimedi per un danno complesso
come quello che sembri aver subito tu».
La Volpe Rosa cercò di insistere disperatamente perché gli
sembrava che fosse stato proprio la Volpe Gialla, molte lune prima, ad
accennargli ad un medicamento che aveva trovato, un giorno, tra i rifiuti degli
esseri umani. Non ne ricavò nulla: forse era passato troppo tempo e la
Volpe Gialla immagazzinava nella sua memoria analitica solo le scoperte che
riteneva utili alla sua razza scartando tutto il resto, ovvero ciò di cui
aveva bisogno la Volpe Rosa.
Spazientito dalle insistenze della Volpe Rosa, la Volpe Gialla si offrì
di steccargli la zampa rotta con due rami legati da fili d’erba
intrecciati come si usava tra gli esseri umani; quando ebbe finito gli disse:
«Questo dovrebbe aiutare la frattura a ricomporsi in modo migliore, ma
solo se ti impegnerai di più a mantenere una postura corretta nonstante
il dolore, altrimenti non servirà a nulla; in ogni caso la giuntura della
zampa rimmarrà sempre debole e anche un minimo sforzo potrebbe romperla
di nuovo.
Per la schiena invece non c’è nulla da fare e posso solo
consigliarti di imparare a convivere con un po´ di dolore: se ci metti un
po´ di buona volontà, riuscirai a non farci più troppo
caso; anche ad altre volpi capitano degli incidenti e sopravvivono
adattandosi».
La Volpe Rosa si era illuso che avrebbe trovato aiuto presso le altre volpi
per guarire, doveva essere solo questione di tempo; ora la Volpe Rosa
capì invece che la sua vita era terminata quel giorno
dell’incidente: «No, la Volpe Grigia si sbaglia»,
pensò, «non sono fortunato ad essere ancora vivo: era meglio che
una tagliola mi uccidesse sul colpo piuttosto che sopravvivere
così».
La Volpe Rosa strisciò di nuovo verso le pendici della montagna; tanto
non poteva sperare nell’aiuto delle altre volpi ed era troppo malconcio
per sopravvivere ai rigidi inverni delle zone elevate e cacciare le poche prede
disponibili sui ripidi pendii.
Le altre volpi non capivano che, se la Volpe Rosa non era mai diventato un buon
cacciatore quand’era giovane, non poteva riuscirci certamente ora con una
zampa quasi inservibile e con la schiena che doleva in continuazione; non era in
queste condizioni che gli si poteva chiedere di rinunciare anche al piacere
dell’uva.
Quando la Volpe Rosa gli aveva detto che non intendeva accettare di vivere in
quelle condizioni, la Volpe Grigia era sbottata: «E cosa dovrebbero dire
allora le volpi polari, con tutti quei cuccioli che muoiono di fame e di freddo
ad ogni inverno?»
«Certo», aveva ringhiato la Volpe Rosa, «Le volpi del polo
nord sono così lontane che ci si può accontentare di avere
compassione per loro senza comunque dar loro alcun aiuto concreto, ma per me che
sono qui non c’è nulla! Allora cosa mi frega dei cuccioli delle
volpi artiche: che muoiano tutti!»
La Volpe Rosa sapeva che la Volpe Grigia era ormai troppo vecchio per cacciare e
che sicuramente la Volpe Bruna gli passava qualche preda, ma per la Volpe Rosa
non ci sarebbe stata nessuna solidarietà.
La Volpe Rosa aveva guardato con tenerezza il cucciolo appena nato della
Volpe Gialla, con gli occhi ancora chiusi, che tramestava le foglie sul
terriccio con le zampette, sotto lo sguardo vigile del padre.
«No», aveva pensato, «Non è solo a causa della maggiore
distanza dalla cima della montagna che la Volpe Gialla non compie più le
sue esplorazioni nelle città degli esseri umani, o che le volpi non
scendono quasi più a razziare i pollai. Questa predisposizione
all’adattamento e ai sacrifici si è così radicata attraverso
le generazioni che non se ne rendono nemmeno più conto e non possono
concepire (e nemmeno ci provano) che invece io non ho ormai alcuna prospettiva
valida per adeguarmi a sofferenze e privazioni.
Quella che loro chiamano, deridendomi, una “cura miracolosa” non
esiste semplicemente perché non viene ricercata. Io chiedo solo la
possibilità di tornare alla mia vita come prima dell’incidente e
poi morire in pace anche tra pochissime stagioni, o anche subito nel tentativo;
ma questo diritto mi viene negato solo perché nessun’altro farebbe
la mia stessa scelta di rischiare di morire piuttosto che rassegnarmi e
adattarmi: io sono praticamente escluso dalla razza delle volpi».
Fu così che la Volpe Rosa decise di ridiscendere a valle, vicino alle
vigne, anche se rischiava di morire dalla fatica durante il tragitto: la Volpe
Rosa era convinto che sarebbe morto presto, a torto o a ragione non importa, e
nel frattempo avrebbe sofferto ogni giorno.
La Volpe Rosa visse penosamente con l’unica compagnia della zoppia e
del dolore alla schiena, poiché nessuno voleva curarlo veramente.
Tra le scarse capacità e le difficoltà di movimento, la caccia
delle piccole prede alle quali la Volpe Rosa poteva ambire era sempre più
faticosa e con scarsi risultati.
La Volpe Rosa non era più in grado di saltare abbastanza in alto per
raggiungere i grappoli d’uva più buoni, ma ci provava allo stesso
malgrado il dolore alla schiena, e finiva quasi sempre con l’accontentarsi
dei grappoli meno maturi che si sviluppavano più in basso, oppure degli
acini caduti a terra anche se erano quasi marci. Ovviamente non aveva più
senso continuare ad esplorare le pendici della montagna alla ricerca di nuove
vigne, e comunque la Volpe Rosa era troppo malconcio per farlo.
Talvolta la Volpe Rosa uggiolava dall’angoscia; oppure digrignava i
denti dall’odio per quello che gli era stato tolto, per
l’incomprensione da parte delle altri volpi, solo perché lui vedeva
la vita in modo differente.
La Volpe Rosa era stato spezzato da una natura matrigna che tutti gli altri
consideravano invece un’amorevole madre da rispettare.
«È meglio che sto da solo», fu costretto a pensare la
Volpe Rosa, «anzi forse è proprio in funzione del destino che mi
attendeva che sono rimasto da solo. Se mi fossi accoppiato avrei dovuto fare
come gli altri: per il bene della mia famiglia, avrei dovuto adattarmi a
convivere con le mie tribolazioni fino anche ad autoconvincermi di poter essere
felice allo stesso; ma forse non ne sarei stato capace perché non
è nella mia natura. Almeno così non faccio del male a nessuno,
tanto meno alla piccola Volpina Fulva».
La Volpe Rosa morì: non importa quando e come, non importa se dopo
poco tempo (com’era convinto lui) oppure dopo una sofferenza prolungata,
perché la sua vita era comunque finita quel maledetto giorno
dell’incidente.
Le volpi non usano lasciare per iscritto la storia dei loro simili,
così come fanno invece gli esseri umani, e comunque alle altre volpi non
importava molto della Volpe Rosa.
Tra l’altro, le volpi si sono ormai quasi estinte sotto l’avanzata
dell’umanità e le poche rimaste conducono delle vite misere e
striscianti nascoste tra i cespugli: hanno capito troppo tardi che oltre la cima
della montagna c’era solo il cielo e là non potevano scappare;
hanno capito troppo tardi che la preservazione delle risorse serve solo a
rallentarne l’esaurimento ma, da sola, limita il benessere presente senza
garantire quello futuro.
La storia della vita della Volpe Rosa si disperse nell’aere, in brani
sfilacciati e scompagnati, qualcosa che fruscia con il vento tra le foglie degli
alberi, qualcosa che sfuma tra le gocce di rugiada che evaporano dall’erba
al mattino, qualcosa che si perde nel buio delle crepe nella terra arsa dal
sole…
Gli uomini colsero per caso qualche sussurro superstite sparso qua e
là, qualche granello di polvere nel vento, e misero assieme solo poche
parole ormai lontane che distorsero e sfruttarono, così
com’è nella loro natura, per esprimere un loro modo di pensare: in
questo caso l’ingenerosa derisione per l’orgoglio di chi non vuole
ammettere una sconfitta.
Gli uomini raccontano così solo di una volpe affamata che voleva
raccogliere dell’uva da un alto pergolato ma che, pur saltando con tutte
le sue forze, non riuscì a raggiungerla e allora se ne andò
dicendo che tanto era ancora troppo acerba.
Questo è tutto ciò che rimane oggi della vita della Volpe
Rosa.
Dario Scoppelletti
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