L’esule cammina solo con il suo odio chiuso nella mano stretta a pugno; l’odio si autoalimenta, cresce, si agita e si divincola per liberarsi, ma l’esule non può lasciarlo andare, non ancora, non è ancora il momento.
L’esule tiene il pugno ben chiuso.
L’odio ringhia come una belva; cerca di trovare un punto debole nella sua
prigione; cerca di insinuarsi tra un dito e l’altro e poi fare leva per
allargare il varco, per esplodere fuori come una fontana di fuoco e dilagare
libero e selvaggio.
L’esule lo sa: tutta l’umanità affogherà in un mare di
fuoco e di sangue, anche se questo non lo ripagherà nemmeno per un solo
istante delle sue sofferenze; non esiste una vendetta che sia sufficiente, ma
lui si prenderà almeno quella che può senza pietà per
nessuno così come nessuno ha comprensione per lui.
Ma l’esule non può ancora farlo; vuole aspettare che svanisca anche
quell’ultimo alone di debole luce nel quale si sforza di mettere ancora i
piedi l’uno davanti all’altro; dopo non gli resterà davvero
alcun motivo per aspettare, alcun dovere, alcun senso di
responsabilità.
Una fioca luce da riparare dal buio nero dell’odio appena oltre il suo
cerchio tremolante; un odio da conservare nero come il buio impenetrabile da
qualsiasi luce.
L’esule serra il pugno più forte fino a che le nocche delle dita
si sbiancano.
Voler aspettare a causa di quella poca luce è debolezza da parte sua,
l’esule lo sa, e per questo nessuno crederà al suo odio,
sarà deriso.
Un giorno tutti loro vedranno, ma, non c’è da farsi illusioni,
nemmeno allora nessuno capirà che cosa sarebbe stato giusto e che cosa
è invece stata un’ingiustizia, ottusa ignoranza, e comunque allora
sarebbe troppo tardi per tutti, per tutto.
Nel frattempo, l’esule non può far altro che camminare e tenere a
bada il suo odio; deve impegnare tutte le sue energie residue per tenere il
pugno chiuso contro le spinte del suo odio che lotta per liberarsi.
Una tigre rabbiosa si lancia contro le sbarre che la rinchiudono e le prende a
testate schizzando bava e sangue; ma i bambini tra il pubblico del circo ridono
e gli adulti sono distratti.
L’esule ha sempre la mano impegnata per tenere il suo odio chiuso nel
pugno e non può usarla in altro modo: non può stringere la mano ad
un amico; non può carezzare la guancia di un bambino; questo è
ciò che gli è stato tolto.
Anche questi pensieri sono debolezza e l’esule si pente cento e mille
volte per ogni attimo in cui tutto il suo essere non è concentrato sul
suo odio, in cui si lascia sviare dalla strada su cui l’hanno lasciato e
costretto ad andare avanti.
Certo, qualcuno gli ha detto di tornare indietro: ma quale assurdità!
L’esule stringe il pugno ancora più forte fino a che le unghie
si infilano nel palmo.
Sotto quella pressione, l’odio imprigionato collassa su se stesso strato
su strato, si comprime e si concentra, brucia e incendia sempre più
denso, come una stella prima di esplodere in una supernova e diventare un buco
nero che ingoierà un intero universo.
Ormai il palmo della mano dell’esule sarà nero, e non solo
quello.
Non c’è dubbio che tutto quest’odio porterà
l’esule all’inferno, ma forse lì, tra le fiamme infinite,
le sue maledizioni acquisteranno abbastanza potere per colpire
l’obiettivo, per fare ciò che è giusto.
Vendetta!
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