Il seme

Collegno, 10 settembre 2014

Qualcosa di minuscolo giace nel profondo, un puntino opaco sepolto tra le pieghe di buio più lontane dove non mi reco mai, dove non volgo mai lo sguardo nemmeno per cercare le cose dimenticate, ancora più in profondità rispetto a dove non sfioro mai nemmeno la superficie.
Eppure quel seme è lì, inosservato ma presente, dormiente. Forse è caduto lì per caso o forse no; forse è sempre stato lì, forse era lì già prima di me o forse è comparso dopo in qualche momento.
Forse sono stato io a lasciare cadere quel puntino nel buio senza accorgermene e lui è scivolato sempre più in profondità; forse è stato qualcun altro a lasciarlo cadere per caso oppure lo ha nascosto lì apposta, chissà perché e con quale intenzione.
Forse avrei potuto evitarlo o forse avrei potuto accorgermi di quel seme per tempo; forse avrebbe potuto scorgerlo qualcun altro, qualcuno che avrebbe potuto aiutarmi; forse qualcuno sapeva o almeno sospettava, ma ha taciuto. Forse quel puntino è sempre stato lì da ancor prima della notte dei tempi, o comunque era destino e né io né nessun altro avrebbe potuto farci niente.

È così che capita.
Una scossa attraversa quel minuscolo seme, come un contatto elettrico tra due poli opposti, e il piccolo guscio opaco comincia a creparsi spinto dalla materia interna che pulsa debolmente.
Dalle crepe alla base del seme spuntano lentamente dei filamenti così sottili da essere quasi invisibili e affondano come tentacoli nell’oscurità per nutrire il germe captando il buio e il freddo e il fuoco oscuro.

Ora il seme si è gonfiato, dapprima lentamente e poi repentinamente come se avesse avuto una volontà propria di continuare a passare inosservato fin quando fosse stato troppo tardi.
Il seme cede all’improvviso alla pressione interna e si schiude in un fiore mostruoso e fetido; i petali che si dispiegano come le dita ritorte di una mano sono screziati di nero e di viola, ruvidi, cosparsi di macchie di sangue e già infestati da piccoli vermi pallidi che si dimenano; gli stami si ergono irti di uncini taglienti ed emanano una pallida fosforescenza verdolina.
Un fiore sbocciato già marcio, già putrido, il fiore della morte.

Dario Scoppelletti

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